domenica 28 dicembre 2014

Il prezzo del petrolio come sanzione verso i paesi produttori non allineati


 

Possiamo fare una assunzione: che nel mercato del petrolio il prezzo basso può essere una sanzione nei confronti dei paesi “non allineati” mentre il prezzo alto può essere un premio nei confronti dei paesi produttori che sono virtuosi.

 



 
E’ possibile distinguere due componenti nella produzione del prezzo del petrolio. Una componente di mercato, che riguarda cioè la domanda di mercato che potremmo definire “esogena” rispetto alle decisioni dei paesi produttori, ed una componenti interna che potremmo definire endogena rispetto alle scelte di prezzo realizzate dai produttori.

La globalizzazione ha bisogno di petrolio. Il petrolio sostiene le economie in via di sviluppo e nello stesso tempo anche le economie industrializzate. Poiché la domanda di petrolio è molto sostenuta e questo dovrebbe portare ad una crescita del prezzo del petrolio. Il petrolio è un bene scarso laddove la domanda sostenuta dovrebbe produrre una crescita del prezzo del petrolio.

Tuttavia nonostante una forte domanda di mercato il prezzo si riduce e quindi questo sta a significare che la componente endogena del prezzo, ovvero quella relativa alla struttura interna dell’organizzazione dei produttori, prevale su quella esogena, ovvero sul meccanismo domanda-offerta estraneo dalla organizzazione dei produttori di petrolio.

Ne deriva pertanto che il prezzo del petrolio in questa fase assume una connotazione di sanzione nei confronti di alcuni paesi produttori da parte di altri. L’impatto del basso prezzo del petrolio potrebbe essere una cosa buona per i paesi in via di sviluppo.

Tuttavia è necessario considerare che un basso prezzo del petrolio potrebbe determinare una riduzione del valore delle riserve di petrolio e una riduzione del valore dei contratti finanziari derivati sul petrolio. Una tale riduzione di valore potrebbe colpire anche alcuni mercati finanziari evoluti.

Il conflitto tra i paesi produttori di petrolio potrebbe portare ad una ulteriore riduzione del prezzo del petrolio, fino a quando non si raggiunga un qualche obbiettivo di governance in grado di modificare le prospettive di sviluppo del mercato petrolifero.

Cambiamenti che appaiono abbastanza difficili in uno scenario nel quale l’occidente ha deciso di ridurre la produzione di valore aggiunto soprattutto manifatturiero e industriale in favore dell’oriente.

Forse la ripresa del prezzo del petrolio a prezzi “medi” potrebbe determinarsi solo con la ripresa della produzione industriale nelle economie occidentali.

Una ripresa che appare difficile nel caso di imprese price-taker ma che sembra invece altamente probabile nel caso di imprese price-maker. Tuttavia il basso prezzo del petrolio ha anche l’effetto di ridurre gli investimenti nelle attività di ricerca di nuove fonti di energia.

Se il prezzo del petrolio basso può essere inteso come una sanzione nei confronti di alcuni paesi produttori allora una ripresa del prezzo del petrolio potrebbe segnare il superamento delle condizioni di conflittualità tra i produttori.

sabato 27 dicembre 2014

LE RIFORME CHE SERVONO RIGUARDANO LA BANCA CENTRALE

In un periodo di crescita economica prolungata in Asia, in un periodo di ripresa dell’economia americana l’economia europea è ancora ferma. Le prospettive di crescita per l’economia europea sono ancora basse. Sembra che l’Europa abbia perso la stessa prospettiva di una politica economica che possa in un qualche modo produrre una crescita economica.
In genere le ragioni per le quali si ritiene che l’Europa sia lenta nella crescita sono legate ai seguenti fattori: ingessamento del mercato del lavoro, alti costi della politica, alte tasse e un mercato delle imprese controllato. Tuttavia anche se in questi settori si sono verificate delle importanti innovazioni, come per esempio è accaduto in Italia, la crescita economica sembra essere ancora lontana.
Non basta a produrre crescita economica l’eliminazione del’art. 18, non è bastata la riduzione dei costi della politica, il progetto costituzionale di riforma del parlamentarismo, ed anche forme di agevolazione per l’ingresso di finanziamenti dall’estero sembrano inefficienti a produrre la crescita economica.
Sembra che in effetti la politica fiscale non abbia alcuna possibilità di impattare la crescita economica. Forse una ragione potrebbe essere ritrovata nella mancanza di gerarchia nell’Unione Europea. In effetti anche se l’Unione Europa è una confederazione di Stati è pure necessario che vi sia una figura istituzionale che possa mettere ordine e dirimere le controversie anche tra i paesi. Se infatti alla tendenza centrifuga dell’Europa delle regioni” non si affianca un progetto centrifugo di una “Europa delle istituzioni” è probabile che le tentazioni regressive del localismo sia superiori rispetto alle tendenze progressiste dell’istituzionalismo volto non solo al riconoscimento della centralità dei territori, ma soprattutto alla centralità dell’uomo e della sua “libertà di capacitazione”.
E’ quindi è necessario che la riforma della politica fiscale sia fondata su di una nuova struttura istituzionale gerarchica che possa in questo modo le politiche fiscali soprattutto relative alla tassazione potrebbero trovare una maggiore capacità di realizzazione pure nel rispetto di un principio di sussidiarietà.
Affinché esista un localismo, un regionalismo, un principio di sussidiarietà è necessario che esista anche una tendenza centralista alla quale il localismo possa in qualche modo non solo contrapporsi ma pure accedere nel caso in cui le risorse dei territori fossero insufficienti a garantire ai cittadini diritti umani e qualità della vita sufficienti.
Questo potere di carattere centrale deve tuttavia avere la capacità di contrapporsi alla Banca centrale in modo virtuoso. E’ necessario quindi considerare che la banca centrale deve avere la possibilità di influenzare direttamente l’economia europea. Per fare questo è necessario che la banca centrale sia capace non solo di agire con le politiche di austerità, ma pure con le politiche economiche volte alla crescita. Sembra infatti che la politica economica della banca centrale sia monca. All’elevata capacità di produrre una politica monetaria restrittiva si contrappone un handicap politico: l’incapacità di produrre una politica monetaria espansiva.
E’ difficile capire perché il banchiere centrale abbia rinunciato a questo lato importante della politica monetaria. Perché il banchiere centrale non ha voluto potenziare il lato delle politiche economiche espansive e ha voluto invece soltanto mostrare la sua capacità di performare con le politiche economiche restrittive.
Una banca centrale ha bisogno di poter agire con tutti e due i lati della politica monetaria sia nella versione restrittiva che quella espansiva.
La possibilità di accedere ad entrambe le politiche è fondamentale per l’autonomia della banca centrale. Per questo è necessario considerare che fino a quando non si avrà una politica economica espansiva non potremo considerare la banca centrale come un progetto compiuto. La banca centrale europea è ancora una istituzione povera e da riformare.
Per questo ora che gli stati hanno realizzato delle politiche economiche fiscali di riforma è necessario riformare la banca centrale.

Una banca centrale libera e autonoma capace di perfomare anche delle politiche economiche espansive in grado di impattare e dirigere l’economia europea.

venerdì 28 novembre 2014

L’onda lunga del secolo breve

La crisi economica e finanziaria sembra essere definitivamente alle spalle negli Usa ?
In realtà sembra che la crisi economia sia passata negli Stati Uniti.
Il paese ha ripreso a crescere nel prodotto interno lordo, il tasso di disoccupazione si è ridotto, e la sostenutapolitica monetaria della banca centrale sembra aver offerto adeguata capacità finanziaria tanto alle banche quanto ai mercati finanziari.
Inoltre la ripresa della produzione industriale insieme con la sempre maggiore attività estrattiva di greggio ed insieme con un piano per il rilancio anche della piccola e mediaimpresa sembrano aver completato il quadro di un paese che è venuto fuori dalla recessione e si avvia a riprendere il suo cammino di crescita economica.
Ma che cosa è cambiato davvero dal periodo precedente alla crisi del 2007 ad oggi nel sistema americano  possiamo dire effettivamente che si sono verificate delle condizioni di cambio strutturale del sistema economico ?
E’ difficile immaginare che i mercati finanziari, che le grandi assicurazioni e il sistema bancario abbiano imparato la lezione.  Se infatti i derivati e le securitization sono stati in un certo senso svincolati e riabilitati come strumenti non solo in grado di produrre rischi sistemici ma anche di generare crescita e sviluppo, nello stesso tempo l’orientamento del capitalismo americano rimane ancorato al profitto e la leadership politica economica statunitense si pone ancora come guida della globalizzazione.
Che cosa allora ci si può aspettare per il futuro economico di quella che è ancora la più grande potenza economica della globalizzazione ?
Certo la capacità di permanere nella leadership è dovuta innanzitutto ad una economia di scala che sembra in ogni caso essere presente negli stati uniti con riferimento alle risorse sia di capitale umano, tecnologico, di risorse minerarie ed anche di capacità istituzionale.
 Tuttavia è probabile che la possibilità di permanere in una condizione di leadership sia fortemente legata alla capacità di vincere delle partite con singoli competitori nella specializzazione internazionale.
Il concetto di specializzazione internazionale deve essere meglio spiegato. Per specializzazione internazionale non possiamo soltanto intendere una condizione macroeconomica legata ai bassi costi dovuti ad un deprezzamento della moneta o ad una condizione di sfruttamento dei lavoratori e dei fattori produttivi. Per specializzazione internazionale dobbiamo intendere delle caratteristiche tipiche del sistema industriale che è in grado per la cultura economica tipica di un certo paese di produrre determinati beni meglio e non solo ad un prezzo più convenite di altri paesi.  
In questo senso possiamo dire che effettivamente gli Stati Uniti possono essere competitivi anche con i paesi asiatici. Se infatti la competizione sul prezzo non è una competizione che si possa vincere in qualche modo per via dell’enorme disparità dei valori monetari e quantitativi, la competizione sulla qualità è nella perfetta disponibilità degli Usa anche se è necessario sottolineare che il potere di mercato delle singole imprese  può essere un enorme limite alla diffusione e all’affermazione del capitalismo a stelle e strisce E’ necessario infatti mettere insieme la capacità di sostenere in global player con la capacità di produrre delle nuove imprese che continuino ad esser innovative e ad aprire nuovi mercati e nuovi scenari.
 Se gli statunitensi riusciranno a vincere partite basate sulla specializzazione internazionale attraverso la conservazione dei global players e pure nella determinazione di nuovi scenari di impresa la loro capacità di guidare il capitalismo potrebbe permanere intatta.

Tuttavia è necessario sotto questo punto di vista una politica internazionale favorevole ad un assetto leaderistico pure nel riconoscimento dell’importanza di uno schema concertativo sulle scelte di fondo quali: stabilità finanziaria, ambiente e diritti dei lavoratori da adottare insieme con i paesi di nuovo sviluppo.

Fonte: http://www.ilsole24ore.com/art/economia/2014-11-22/e-tracollo-non-arriva-111007.shtml?uuid=ABIiwwGC

lunedì 24 novembre 2014

Le politiche economiche industriali della commissione Junker




In un articolo pubblicato  sul sito del Il sole 24 ore si fa riferimento al piano realizzato da Junker per favorire gli investimenti  nelle politiche economiche industriali. Tuttavia appare difficile che questo piano da 300 miliardi di euro possa essere in grado di offrire una protezione al fenomeno della globalizzazione che porta le imprese ad andare all’estero, comprese le imprese tedesche.
Se per industria infatti immaginiamo il sistema economico fordista –taylorista, la produzione in serie, l’azienda che occupa decine di migliaia o anche centinaia di migliaia di dipendenti allora dobbiamo dire con grande probabilità che questo investimento sarà fallimentare.
I costi di impianto, i costi dei materiali, i costi del trasporto della materie prime, i costi dell’energia, i costi del lavoro, il costo del fisco sono troppo elevati per consentire all’Europa di ospitare un sistema industriale pesante. E questo è anche dimostrato dalla naturale tendenza dell’economia europea a sostituire il settore dei servizi con il settore dell’industria. E’ chiaro tuttavia che non è possibile generalizzare.  Vi sono anche in Europa alcune aree nelle quali i costi per la realizzazione di una struttura industriale sono bassi, ovvero nei paesi dell’Est.
Tuttavia è difficile dire per quanto tempo questi paesi permarranno in una condizione di convenienza relativa rispetto alla possibilità di investire in industria. E’ probabile infatti che con l’introduzione dell’euro e con il processo di integrazione europea i costi aumentino anche in questi paesi provocando  una condizione di inefficienza dell’investimento pubblico.
Non è quindi tanto una questione di  entità dell’investimento pubblico quanto piuttosto una questione di efficienza dell’investimento. Investire nell’industria significa esporsi al rischio di bassa efficienza dell’investimento, a meno che una politica economica monetaria di svalutazione dell’Euro non accompagni il processo di investimento industriale. Tuttavia sembra difficile che l’indirizzo storico della Banca Centrale Europea possa cambiare in una contesto dove pure il moderato obbiettivo dell’inflazione al 2-3% sembra impossibile da raggiungere.
Vi è inoltre una altra importante questione da considerare con riferimento all’investimento pubblico nel sistema industriale ed è quella relativa alla sostenibilità del sistema industriale. In un periodo nel quale si fa riferimento alla necessità di ridurre la capacità inquinante del sistema industriale, realizzare un sistema industriale in una Europa già provata dall’industrialismo potrebbe ridurre la capacità di benessere dei cittadini europei a causa dell’inquinamento.
E’ necessario allora considerare che in una Europa che vuole conservare una moneta sostenuta l’unica politica industriale possibile è quella che favorisce le piccole imprese, i network tra piccole imprese, e la costruzione di filiere corte. Tra le piccole imprese possono rientrare anche quelle imprese che realizzano attività di progettazione in campi ad alta tecnologia che poi possono essere realizzati in paesi dove i costi di realizzazione sono più bassi.  Ecco il nuovo sistema industriale europeo. Una sorta di grande centro di ricerca, di progettazione, di realizzazione di piccole e medie attività economiche capaci di essere nello stesso tempo compatibili con la struttura dei costi del mercato e  con le esigenze di rispetto dell’ambiente, dei diritti dei lavoratori e delle persone. Con una capacità di generare reddito elevatissima.
Quanto vale infatti un brevetto che si trasforma in prodotto meccanico, informatico, o in servizio standardizzabile ? Può valere anche diversi milioni di euro se la piccola e media impresa procede con la realizzazione delle componenti fisiche nei paesi dove è più conveniente produrre.
Le piccole e medie imprese artigiane, a forte contenuto intellettuale, ad alto valore di capitale umano possono così esercitare una funzione egemonica e movimentare sia il capitale umano, che migliaia di lavoratori  anche all’estero, oltre che milioni di consumatori nel mercato globale.
Tuttavia è necessario che in questo senso l’unione europea costruisca dei ponti e delle relazioni commerciali in grado di sostenere questa capacità produttiva globale che può giovare alla crescita dell’economia europea e allo sviluppo economico globale.
La politica industriale è in realtà una parte della politica economica fiscale. Essa deve  coordinarsi con la politica economica monetaria.
Una politica degli investimenti nel sistema industriale pesante deve essere accompagnata da una svalutazione monetaria e da una crescita dell’inflazione moderata. Poiché La globalizzazione ha portato con sé una diversificazione dei costi di produzione. Combattere contro una struttura dei costi così mutata è una operazione titanica, possibile solo in presenza di una svalutazione continuativa dell’euro.
Se invece al contrario l’Ue investe sull’industria  in assenza di una politica economica monetaria della svalutazione allora sarebbe meglio per l’Ue cambiare progetto di politica industriale e rivolgersi alle piccole e medie imprese capaci di innovare e progettare. 


Dati World Bank http://data.worldbank.org/indicator/NY.GDP.MKTP.KD.ZG

domenica 16 novembre 2014

Liberare l'economia dalle secche del debito

Dati World Bank http://data.worldbank.org/indicator/NY.GDP.MKTP.KD.ZG
Secondo un articolo pubblicato online il Giappone sembra  entrato in recessione. Si tratta di un dato che non può essere certo considerato come imprevisto. In effetti l’economia giapponese guidata dall’abenomiccs, ovvero fondata su politiche di espansione monetaria e di crescita del prelievo fiscale indiretto in un periodo di crisi dell’economia finanziaria mondiale non poteva certo portare ad effetti positivi soprattutto in un paese che ha un elevatissimo debito pubblico, pari oltre 2 volte il Pil. Il problema del Giappone in realtà è la sua posizione all’interno dell’area asiatica, una area a fortissimo sviluppo nella quale si trasferiscono ricchezze sempre più ingenti e che dovrebbe presto arrivare a detenere quote fondamentali del PIL  mondiale.

 

Tuttavia è necessario sottolineare che mentre le economie asiatiche possono ancora provvedere ad una crescita economica guidata da alti tassi ,l’economia del Giappone poiché parte già da una  condizione di maggiore vantaggio sotto il punto di vista economico ha maggiori problemi sotto questo punto di vista. La possibilità di comprimere i salari per essere competitivi  con Cina, e sud Corea, India e gli altri paesi asiatici sembra essere molto bassa. Del resto il sistema bancario e finanziario giapponese era stato già messo in ginocchio dalla crisi del 1994 e da quel momento in poi l’alto debito pubblico non ha consentito alle politiche economiche monetarie di essere adeguatamente accompagnate da politiche economiche fiscali. Tuttavia le imprese giapponesi permangono come global players e sono in parte anche pregiudicate da uno scenario economico nazionale che certo non è loro favorevole.

Il Giappone può sembrare una piccola economia rispetto alla Cina o  all’India. Certo non lo è se guardata dagli occhi dell’Europa. In effetti con i suoi oltre 200.000.000di abitanti, con le sue imprese che hanno una elevatissima capacità di produrre beni tecnologici avanzati il Giappone rimane uno dei paesi più interessanti sotto il punto di vista economico .Il Giappone in realtà è un paese occidentale sotto il punto di vista del sistema produttivo anche se la sua posizione geografica e culturale lo definiscono come orientale.

L’antica diatriba cino-giapponese potrebbe forse riproporsi all’interno della globalizzazione.

Ma sarebbe forse troppo difficile riproporre un conflitto territoriale da potenze che hanno invece tutto l’interesse a collaborare.

Tuttavia nonostante i mercati abbiano cercato in ogni modo di procedere ad una uniformizzazione dell’economia mondiale sembra che questo risultato non sia stato conseguito o forse è impossibile da raggiugere. La crisi finanziaria ha dato nuova importanza all’economia nazionale e la globalizzazione come nuova pangea è stata sostituita dal vecchio schema dell’internazionalismo bilaterale e multilaterale.

Tuttavia le imprese rimangono ancora centrali per quello ius mercatorum che dispone un diritto informale capace di influenzare i governi e le classi dirigenti pubbliche e private.

La proposta di una banca centrale globale o di una moneta di riserva globale capace di offrire un collaterale alle obbligazioni dei sigli paesi spaventa come nuovo monolito economico che potrebbe essere oggetto di attacchi distruttivi e violenti.

La globalizzazione è un luogo liquido e tale sembra rimanere anche se la crisi rischia di ridurre la capacità del capitale di remunerare persone, competenze e capacità e di far in modo che la chiusura nelle economie nazionali, regionali o locali frapponga allo sviluppo  della civilizzazione.

Per questo è necessario affrontare il problema del debito pubblico tanto nei paesi di nuovo sviluppo quanto nei paesi sviluppati per fare in modo che il capitale possa dare ancora liquidità e consentire all’economia d riprendere il suo cammino di crescita e progresso.  

 

sabato 18 ottobre 2014

La regolamentazione è solo una parte della politica economica


 
 
 
Il mito della regolamentazione finanziaria davvero un elemento difficile da eleminare. Molti non si rendono conto che la regolamentazione finanziaria è pre-esistente rispetto allo stato e che probabilmente la finanza resisterà anche alla fine degli stati nell’evoluzione della globalizzazione. Possiamo dire che in effetti non esiste alcuna possibilità, almeno nella condizione attuale di “bloccare” la finanza da parte dei governi e dei parlamenti. Tuttavia una qualche attività di coordinamento tra regolamentazione finanziaria e politiche economiche può essere realizzata.

In modo particolare possiamo dire che l’esistenza di una serie di architetture di carattere finanziario che tenta di regolamentare il settore è più il riconoscimento di uno status quo che un vero e proprio ente di regolamentazione. Del resto la finanza produce fattispecie sempre nuove che è difficile sottoporre alla valutazione del mercato in termini di rischio ed anche alla regolamentazione dello Stato in termine di legittimità. Quando scoppiano le crisi finanziarie sono in genere gli enti di regolamentazione ad intervenire. Ma è difficile che l’intervento degli enti di regolamentazione sia previsionale, ovvero che essi intervengano prima del raggiungimento di un certo di tipo di risultato in termini di rischio. Gli enti di regolamentazioni sono enti che agiscono ex-post. Tuttavia la questione della regolamentazione “prudenziale” ovvero della introduzione di una politica economica e finanziaria prudenziale potrebbe avere senso se si applicasse non solo agli enti di regolamentazione ma anche alle banche centrali e ai governi nazionali. In effetti la regolamentazione è solo una parte della politica economica finanziaria. La regolamentazione è la parte “Law” della ”Law and Finance”. Poi c’è la parte finanziaria vera e proprio che dipende in modo strutturale  dal valore della moneta, dal tasso di interesse e anche dagli aspetti di carattere fiscale che possono influenzare i redditi delle persone e delle società, così come anche la propensione al risparmio al consumo e all’investimento.  La regolamentazione ha un valore di carattere conservativo. Quando un ente finanziario viene regolamentato si determina il suo riconoscimento nel novero delle attività  rilevanti. La politica economica, quando agisce attraverso il cambiamento del valore della moneta o delle tasse ha invece un significato di carattere anche previsionale perché può premiare comportamenti virtuosi attraverso l’utilizzo di incentivi monetari o fiscali immediati e diretti. L’aspetto normativo della regolamentazione finanziaria, che deve essere espanso a ricomprendere anche le borse valori , deve essere accompagnata all’aspetto quantitativo della regolamentazione finanziaria.  Una politica di coordinamento tra le maggiori banche centrali sui tassi  di interesse attraverso la determinazione anche di una leadership chiara a livello internazionale sui mercato valutari e del debito pubblico, un maggiore coordinamento fiscale sulla tassazione del reddito, dei risparmi e degli investimenti, possono aiutare a prevenire le crisi oltre a gestire l’esistente.


Il processo di novazione istituzionale è un never endig game che tuttavia deve essere non solo di carattere normativo ma anche di carattere economico attraverso l’utilizzo di premi per i comportamenti virtuosi.
 
 

 

giovedì 2 ottobre 2014

Per un sistema bancario più integrato in Europa

« Con l'euro la Germania ha sempre avuto un'inflazione più bassa degli altri Stati e nessuno spread dato che lo spread è sul Bund. […] il manifatturiero tedesco paga meno interessi e si vende a prezzi più competitivi. […] A fine 2011-inizio 2012 con i prestiti agevolati Ltro le banche dell'Eurozona hanno onorato i debiti con la Germania e trasferito in Bce i rischi del sistema bancario tedesco. […] Il rallentamento dell'estate della Germania trova giustificazione in queste dinamiche. I Paesi periferici dell'area euro non possono più indebitarsi per comprare prodotti tedeschi; in Italia si parla di 6 milioni di poveri. […] Un primo segnale è stato dato: l'euro non può continuare a essere germano-centrico. Va affrontato il tema del debito pubblico. […] Si potrebbe partire azzerando, come fa la Fed, il pagamento degli interessi sui 300 miliardi di titoli governativi dell'area euro detenuti dalla Bce, liberando una decina di miliardi l'anno per investimenti […]Germania grazie al flight-to-quality sui Bund e ai tassi negativi da anni è l'unico Stato che rifinanzia il proprio debito praticamente a costo zero.» (M.Minenna, il modello Fed per abbattere il debito UE)
L’economia europea si caratterizza per la sua eterogeneità. Tuttavia è pure necessario sottolineare che l’Europa è unita sotto il punto di vista monetario. Il dibattito sul debito pubblico dei paesi europei è un dibattito comprensibile. In effetti tra i vari paesi europei vi è diversità nelle politiche di bilancio, nelle priorità della spesa pubblica, nella difesa di talune categorie di soggetti economici piuttosto che di altri. Tuttavia sotto il punto di vista monetario l’Europa è unita. La presenza dell’euro è una manifestazione evidente dell’unità europea. La Banca Centrale Europea è l’ulteriore manifestazione di questa unità. In modo particolare possiamo dire che la banca centrale europea è una banca costituta da banche e quindi ne deriva che in questo senso le singole componenti della banca centrale devono essere poste in condizione di dialogo e di solidarietà. I risparmiatori tedeschi valgono quanto i risparmiatori greci, e degli altri paesi dell’Unione. Per questa ragione è necessario considerare che il processo di unificazione dell’Unione Europea deve spingere di più l’acceleratore sull’integrazione bancaria. Può sembrare paradossale porre la questione dell’unità del sistema bancario europeo piuttosto che quella della unità della politica fiscale di bilancio dei singoli statti. Tuttavia è chiaro che senza la prima non si potrà giungere alla seconda. La politica monetaria ha la capacità di agire in modo più veloce ed efficiente rispetto alle politiche fiscali. Per questa ragione per potere avere una politica economica comune dell’Unione europea è necessario unificare e integrare il sistema bancario. La banca centrale europea opera attraverso la predisposizione del tasso di interesse governato dalla offerta e dalla domanda di moneta. La crescita dell’integrazione del sistema bancario europeo può consentire di aumentare l’efficacia delle politiche monetarie siano esse espansive o restrittive. Si può ragionare sulla necessità di prevedere una sorta di “livello di eterogeneità” ovvero un livello di “libertà delle banche” rispetto all’integrazione nel sistema bancario europeo. Tuttavia questo livello deve essere tale da consentire alle politiche monetari di potere esprimere i propri effetti pieni attraverso le modificazioni del tasso di interesse che siano dovute a  politiche monetarie restrittive o espansive in tutta l’area euro. Occorre ridurre il differenziale del costo del credito tra i paesi europei. E’ possibile accettare un margine di oscillazione del costo del credito. Tuttavia si deve trattare di un margine di oscillazione basso affinché la Bce possa fare in modo di propagare gli effetti sulle sue politiche monetarie in tutta l’Unione europea. I politici e gli imprenditori, i sindacalisti e i gruppi di interesse danno per scontato che l’Europa è unita e integrata sotto il punto di vista bancario. Essi usano molto spesso l’espressione “l’Europa dei banchieri” oppure “l’Europa dei burocrati”. Tuttavia essi non si rendono conto che l’Europa è divisa proprio sotto il punto di vista bancario. La diversità dei tassi di interessi praticati, la diversità del costo del denaro,  sono gli spread da abbattere attraverso una maggiore integrazione bancaria europea. Occorre rimuovere gli ostacoli che impediscono alle politiche monetarie della banca centrale di manifestarsi in tutto il sistema bancario. Combattere per l’integrazione bancaria per una Europa unita nelle opportunità.


Il tasso di interesse di lungo periodo del mese di luglio 2014 per alcuni paesi dell'area Euro. Fonte. OCSE http://stats.oecd.org/index.aspx?querytype=view&queryname=86#




venerdì 26 settembre 2014

E’ la globalizzazione, bellezza !

« La globalizzazione, come molti hanno notato di recente, è in ritirata. Nonostante tutti i suoi vantaggi innegabili, ha generato problemi di governance e di gestione che hanno rivelato l’inadeguatezza dei governi nazionali e delle istituzioni internazionali. Ciò ha fatto si che le persone, ovunque nel mondo, sia ricche che povere, debbano affrontare i problemi – dal fallimento degli Stati a quello delle banche, dallo sfruttamento alla sotto-occupazione, dai cambiamenti climatici alla stagnazione economica – a cui la globalizzazione ha contribuito ma che non riesce ad affrontare efficacemente. Istituzioni fragili hanno dato luogo a ripercussioni politiche e al pericolo di disastri su molti fronti. […]Nessuno è disposto a perdere i vantaggi di un’economia globale, , ma tutte le grandi potenze stanno cominciando a riflettere su come proteggersi dai suoi rischi, militari e non. […]Eppure l’interdipendenza è innegabile. […]Con la frammentazione che minaccia di sostituire la globalizzazione, l’urgenza ora è quella di condividere i concetti, le intuizioni, e le buone pratiche che possano mettere insieme le persone e scongiurare i pericoli.» (Martina Larkin, Riavviare la globalizzazione, Il Sole 24 ore) 

Nell’articolo considerato si mettono in evidenza i rischi del rallentamento della globalizzazione. Si paventa il rischio di una sorta di ritirata della globalizzazione. E’ noto che l’economia è una scienza triste e che tra le sue scuole di pensiero maggiori vi è la scuola degli economisti cassandrini, sempre verdi e pieni di risorse. Tuttavia al netto delle considerazioni circa la sensibilità dinanzi a fenomeni di crisi occorre considerare il fenomeno della globalizzazione nella sua complessità. La globalizzazione è un fenomeno fondato sul centralismo delle imprese sui governi, sullo shortermismo contrapposto alla programmazione di lungo periodo, sulla frammentazione piuttosto che sull’integrazione, sulla scienza come meccanismo di prova inferenziale e falsificazione. Ovvero la globalizzazione viene proprio da quel postmoderno del quale si mettono in evidenza in modo alterno i vantaggi e gli svantaggi. Per quando la modernità liquida possa avere scardinato molti dei sistemi economici,delle convinzioni politiche e delle sicurezze personali, anche in senso amoroso-sentimentale, è pur vero che è essa stessa il motore della globalizzazione, la sua intima essenza. La globalizzazione è un fenomeno di lungo periodo sotto il profilo storico. Esso attraversa non solo i territori, ma anche le culture, le civiltà, le lingue, le narrazioni stesse di un popolo, di una nazione, di un gruppo etnico. Tensioni che hanno trovato nella modernità liquida la possibilità di manifestarsi in modo compiuto. Pertanto anche se l’occidente vive una sua crisi la globalizzazione continua va avanti. Lo sviluppo dell’Africa, insieme con il Far East sono elementi che fanno comprendere come la crescita delle connessioni, del prodotto interno lordo globale, del reddito procapite e del reddito disponibile alla popolazione sono in continua diffusione. Così come anche le idee. Tuttavia è chiaro che se si vuole affrontare la questione della globalizzazione dal lato dello Stato si vedrà che lo Stato è in crisi. Tuttavia lo Stato come lo abbiamo conosciuto in Europa dal 1648 ad oggi, ovvero lo stato-nazione, è una rarità nella storia degli Stati. La gran parte degli Stati che hanno prodotto civilizzazione sono stati multietnici. E del resto l’Unione Europea da un lato e gli Stati uniti dall’altro sono esempi di stati multietnici; l’Unione Europea per costituzione, gli Stati Uniti grazie all’immigrazione. Fanno eccezione in questo senso gli stati del Far East che sembrano avere una maggiore uniformità culturale al proprio interno. Tuttavia nessuno Stato da solo può governare la globalizzazione. Gli Stati, se permangono in una condizione di efficienza amministrativa, possono partecipare alla globalizzazione e creare le opportunità per lo sviluppo delle interazioni tra le organizzazioni produttive. Tuttavia la globalizzazione riguarda più il  privato, il comune e il civile che il pubblico. Il privato, il comune e il  civile partecipano della realizzazione di una nuova fase degli enti pubblici con orientamento anche meta-statale.
La globalizzazione quindi è in ritirata ?  Sembra proprio di no. Al massimo sono in ritirata quegli ordinamenti inefficienti e arretrati rispetto alle sfide della globalizzazione.









martedì 16 settembre 2014

L’inflazione è una parte di PIL


« L'epoca dell'alta inflazione è finita per sempre? In un mondo di crescita lenta, enorme indebitamento, terribili pressioni distributive, chiedersi se l'inflazione sia morta e sepolta o appena dormiente è di somma importanza.» [...]«Oggi l'alta inflazione pare a tal punto remota che molti analisti la considerano come poco più di una curiosità teorica.» […]«E alcune delle stesse pressioni che hanno contribuito a contenere l'inflazione negli ultimi vent'anni stanno venendo meno.» «[…] il tasso di inflazione a lungo termine di un Paese è tuttora il prodotto di scelte politiche e non di decisioni tecnocratiche.» […]«Eppure, sul lungo periodo, non c'è garanzia che una banca centrale sia in grado di restare salda e tenere la propria posizione in caso di shock violenti come la continua lentezza della crescita della produttività, gli alti livelli di indebitamento, una pressione a ridurre l'ineguaglianza tramite trasferimenti pubblici.» […] « Il modello moderno delle banche centrali ha fatto meraviglie per abbassare l'inflazione.»(K. Rogoff, Il sole 24 ore, L'inflazione è «dormiente» ma non è morta)

Nell’articolo considerato si fa riferimento alla questione della bassa inflazione come un problema strutturale dell’economia occidentale. In realtà dobbiamo ricordare quanto l’inflazione sia stato un enorme problema del corso dello sviluppo dell’economia. Nel 900 si sono avuto periodi di altissima inflazione in corrispondenza di guerre oppure in corrispondenza di veri e propri fenomeni epocali. La scomparsa dell’inflazione dal novero degli fenomeni macroeconomici empirici deve essere messa in relazione con la scomparsa della crescita economica nelle  economie occidentali. Se infatti consideriamo la relazione tra inflazione e tasso di crescita per l’unione europea possiamo verificare che , escluso il periodo della stagflazione nel decennio che ha visto vincere le politiche economiche monetariste su quelle keynesiane, per la restate parte della storia economica recente l’inflazione si è accompagnata alla crescita economica.
Sicché possiamo affermare che l’inflazione potrà manifestarsi di nuovo quando l’economia tornerà a crescere. E’ chiaro che non si fa riferimento a tassi di inflazione a due cifre che sono rappresentativi di situazione di crisi dell’economia. Ma di quel tipo di inflazione, che come i debitori sanno bene, lubrifica i meccanismi dell’industria e dell’impresa e consente ai soggetti economici di poter avere maggiore serenità nelle scelte.
L’inflazione è parte della crescita economica. Quando  torneremo a crescere torneremo a verificare la presenza dell’inflazione.

Inflazione e Crescita economica in Europa dal 1960 al 2013.Dati WB

sabato 13 settembre 2014

From too weak to wake to awake on wave


«Raramente il confronto tra i governi europei è stato aspro quanto negli ultimi giorni. Il ritorno dell'economia in recessione ha reso più mordente la diffidenza reciproca e più tagliente il linguaggio.[…] L'annuncio unilaterale del governo francese di non rispettare i vincoli di bilancio ha sfiorato l'irrisione; i toni con cui Berlino rimprovera gli altri paesi sono diventati acrimoniosi; la Bce chiede all'Italia sforzi fiscali ancora maggiori, ma è finita essa stessa nel mirino del governo tedesco. Tutti sembrano prepararsi a un regolamento di conti.[…] Bisogna che questa assurda escalation dei toni rientri nei ranghi ragionevoli. […] bisogna subito riaccendere il motore, con un piano di investimenti.[…] Il pacchetto dei tre motori - domanda, riforme, investimenti - è realizzabile all'interno del Patto di stabilità.[…] Alla fine […] la vera debolezza strutturale dell'euro area […] è […] nel vuoto di volontà politica e di cooperazione solidale. » (CarloBastasin, Se l'Europa rischia la resa dei conti , Il sole 24 ore,12 settembre2014) 

In questo articolo si mettono in evidenza le caratteristiche del dibattito europeo fondato sulla contrapposizione tra le varie economie nazionali. Le frizioni tra i vari paesi europei sono tali da creare una continua discussione tra tensione alla europeizzazione e la ricaduta in termini di interesse nazionale. Le scorse elezioni europee sembrano non essere state in grado di mettere una fine alla contrapposizione nel tentativo di puntare sugli elementi comuni per riprendere il progetto dell’Europa Unita come area comune degli europei e come area leader nella globalizzazione. La crescita economica non può realizzarsi senza un attivismo a livello politico-istituzionale che si fondi su di una costituzione condivisa che sia rigida. Il patto di stabilità fondato su regole auree deve essere inserito in un quadro costituzionale che consenta di creare maggiore fondamento all’ordinamento europeo. Le regole condivise devono essere scritte in una costituzione rigida. La rigidità della costituzione anche in materia economica deve accompagnarsi alla presenza di una flessibilità nelle politiche economiche. In questo senso la creazione di un governo europeo è fondamentale. Le politiche economiche devono invece essere flessibili, soprattutto sotto il punto di vista fiscale poiché le condizioni economiche dei paesi europei sono diverse e quindi hanno bisogno di diverse politiche economiche fiscali. Occorre quindi cambiare la struttura dell’ordinamento europeo. Una costituzione rigida che consenta di eleggere un parlamento ed un governo in grado di realizzare in modo pieno la disposizione del potere legislativo ed esecutivo e che consentano anche la creazione di un potere giudiziario europeo, e dall’altro lato delle politiche economiche che siano flessibili, in grado di corrispondere alle esigenze e ai bisogni delle varie aree nazionali e regionali che compongono l’Europa. La politica economica deve essere flessibile. La politica economica è, nella definizione di Neville Keynes “arte del governo”.  La quale circostanza richiede che innanzitutto vi sia un governo europeo e che sappia realizzare delle politiche che siano anche in grado di cambiare per seguire, contrastare, anticipare il ciclo  economico e per andare incontro alle caratteristiche tipiche di alcune economie locali. E’necessario quindi introdurre elementi di un costituzionalismo rigido e forte nell’UE ed evitare che il punto di maggiore confronto sia il patto di stabilità. La politica economica deve essere lasciata libera di consentire ad un ordinamento di conseguire gli obbiettivi fissati dalla
costituzione per incrementare il significato politico dell’UE.Se invece si lascia che la costituzione sia mutevole in un quadro di politica economica rigida si rischia non solo di ridurre il significato politico dell’UE ma anche di ridurre le probabilità di conseguire quegli stessi obbiettivi indicati come fondamentali.  L’UE basata sul patto di stabilità è “Too weak to wake”. Solo un fondamento costituzionale rigido della costituzione può consentire all’UE di trovare la forza di svegliarsi e performare la migliore politica economica nel contesto della globalizzazione. 


venerdì 29 agosto 2014

Nuove istituzioni bancarie per risolvere il credit crunch

«La crisi ha messo a nudo e anzi aggravato i tradizionali punti deboli della struttura finanziaria del nostro mondo produttivo e quindi rischia di mantenere, o addirittura aumentare, il ritardo delle nostre imprese rispetto ad altri Paesi, creando un vero e proprio "cuneo finanziario" che si aggiunge a quello fiscale, già di per sé preoccupante. Guardando ad esempio ai dati della Bce sul costo medio dell'indebitamento delle imprese, si osserva che a luglio le imprese italiane pagavano per il breve termine un tasso superiore a quelle di Francia, Germania e Spagna compreso fra 1,68 e 0,31. Il differenziale per i tassi a lungo termine risulta inferiore, ma siccome il nostro è il Paese in cui è più diffusa l'indicizzazione ad un tasso a breve per i prestiti a medio termine (e anche questo è un problema), il primo spread è quello che conta.» (Marco Onado, Il «cuneo finanziario» che pesa sull'impresa, Il sole 24ore, 29 agosto 2014)

L’alto costo del credito caratterizza l’economia italiana in modo strutturale rendendo difficile per le imprese realizzare dei progetti aldi fuori dell’economia bancaria. Le imprese sembrano essere legate in modo strutturale alle banche.  Il “monopolio” del credito riconosciuto alle banche riduce la possibilità da parte delle imprese di finanziarsi attraverso altra via e nello stesso tempo riduce la possibilità da parte delle imprese di realizzare quella libertà economica della quale ci hanno parlato gli economisti neoclassici e che taluni legislatori, come quello italiano, hanno posto nella costituzione. Uno squilibrio che nello stesso tempo tiene fuori i risparmiatori  dalla possibilità di decidere quali siano le imprese virtuose. Non dobbiamo infatti dimenticare che sono i risparmiatori ad allocare presso le banche quelle risorse che poi vengono ad essere impiegate nell’investimento nelle attività delle imprese. I risparmiatori affidano alla banca una delega alla risoluzione dell’asimmetria informativa tra chi detiene risorse a titolo di risparmio e chi invece necessita di risorse per realizzare degli investimenti. Una delega che quindi le banche amministrano in modo inefficiente quando dispongono un alto prezzo del credito nei confronti delle imprese, oppure quando hanno dei problemi nella selezione delle imprese vincenti o dei progetti imprenditoriali profittevoli. Per  questa ragione in altri paesi che sono caratterizzati da una maggiore importanza del mercato nel finanziare le imprese rispetto  al sistema europeo, si realizza il cosiddetto external finance, ovvero la possibilità da parte delle imprese di ricorrere al mercato attraverso la collocazione di titoli obbligazionari oppure di azioni, rivolgendosi direttamente al pubblico dei risparmiatori ed anche agli investitori istituzionali. La possibilità di accedere ad un altro strumento di finanziamento delle imprese rende più concreta quella libertà dell’iniziativa economica privata che sembra caratterizzare i sistemi economici occidentali.  Tuttavia è necessario pure considerare che anche in Italia  si è dato origine attraverso il crow founding a una apertura del novero dei soggetti che possono partecipare al finanziamento delle imprese. Il limite del crow founding consiste ovviamente nel fatto che le imprese finanziabili sono start up e quindi non vi sarebbe  possibilità per una impresa che magari esista già da alcuni anni e che abbia uno storico negativo di poter essere rifinanziata. E allora in queste circostanze è necessario riprendere in mano la funzione dell’institutional building. Non dobbiamo dimenticare che ogni volta che il capitalismo si è trovato in difficoltà ha prodotto delle nuove istituzioni in grado di risolvere delle problematiche. Anzi in realtà il capitalismo stesso potrebbe essere considerato come una istituzione prodotta dalla civiltà occidentale per risolvere il problema della produzione e approvvigionamento delle risorse. Per esempio le banche stesse sono state introdotte per risolvere dei fallimenti di mercato. Ora il fallimento di mercato costituito da quelle imprese che hanno una capacità di produzione pure avendo uno storico negativo e che per tale ragione non possono essere finanziate perché non considerate solvibili, può essere risolto con l’istituzione di organizzazioni ad hoc.  Istituzioni che siano finalizzate alla efficienza delle imprese che hanno capacità produttive anche se in una condizione generale di difficoltà. Imprese che magari hanno un eccesso di debiti, una struttura di bilancio negativa, oppure bassi profitti, e che purtuttavia hanno ancora una capacità produttiva dovrebbero essere “reinserite” nel mercato da istituzioni finanziarie ad hoc che si occupino di ripristinare l’efficienza nelle imprese attraverso processi generativi, sia a carattere creditizio che amministrativo e manageriale. Molto spesso questa attività viene svolta in modo altamente speculativo da diversi enti o istituzioni che operano nel settore “private” e che si ingeriscono nella proprietà delle imprese. Sarebbe invece il caso che il processo di rigenerazione delle imprese avvenisse attraverso un approccio di carattere mutualistico, non profit, e se possibile su base solidaristica e cooperativa anche se su grande scala.
E’ necessario considerare che ogni volta che si salva una impresa, il che significa salvare la capacità dell’impresa di realizzare degli investimenti produttivi anche a mezzo del credito, si salva una cultura imprenditoriale, artigianale, di mestieri e di attivismo sociale e civico che potrebbe essere difficile andare a ricostruire.

Tuttavia per realizzare questo tipo di attività è necessario costituire delle organizzazioni economiche a fondamento istituzionale che siano in grado anche di dare senso a quell’institutional building capability che si pone come momento fondamentale del processo della civilizzazione occidentale e globale. 

giovedì 28 agosto 2014

Il debito tedesco pesa sull'Unione Europea

« Il furore rigorista degli ultimi anni si è fermato ma il motore riformista stenta a partire. Risultato, l'Europa si dibatte tra recessione e minaccia deflazionista. […] L'eccesso di austerità inflitto al fianco Sud dell'euro è stato controproducente: ne ha gelato l'economia facendone lievitare i debiti che avrebbe invece dovuto contribuire ad abbattere. L'inventario dei danni collaterali che hanno finito per lambire anche il Nord, visto l'alto grado di interdipendenza nell'area, da tempo suggerisce una correzione di rotta: giocando la partita doppia del rigore temperato, da affiancare a un serio impegno alla modernizzazione e de-sclerotizzazione dei vari sistemi-paesi del club. In breve, all'attuazione di riforme strutturali riscoperte come l'unico vero motore di crescita sostenuta nel mondo globale.Se la dottrina tedesca è diventata assolutamente dominante (con il suo bagaglio di errori al seguito), è anche perché nessuno finora ha saputo contrapporle valide ricette alternative. Il vetero-socialismo e le scorciatoie del deficit-spending sono state superate dalla storia.» (Adriana Cerretelli, Le credenziali obbligate di Italia e Francia, Il sole24 ore ,di 28 agosto 2014)

 

Nel citato articolo si fa riferimento alla condizione strutturale dell’Unione Europea. La presenza non soltanto di economie che sono differenziate per caratteristiche produttive, strutture di bilancio, condizione del debito pubblico e cultura economica, ma pure per una forte caratterizzazione politica economica legata. La contrapposizione tra un Nord, Nord Est ricco e virtuoso e un Sud-sud Ovest povero e con scarse possibilità di crescita economica accompagna dal 1989, se non anche da prima, il processo di integrazione dell’economia europea. Non sarà possibile mettere d’accordo le aree diverse dell’Unione europea in una unica politica economica. Né l’austerità ha lo stesso effetto su tutti i paesi e le stesse popolazioni. Se per i tedeschi l’austerità può servire a svolgere una sorta di extra-motivazione che agisce sulle ragioni metastoriche dell’esistenza del popolo germanico azionati dal tentativo di emancipazione da se stessi e dal passato pesante, per altri popoli l’austerità si manifesta come punizione dinanzi alla propria identità culturale e produttiva e fa scaturire sensi di colpa, rinunce, ripiegamenti su se stessi.

La questione del debito è la più sconcertante di tutte. Se infatti il debito si considera sotto il mero punto di vista economico- finanziario allora vi sono vari strumenti che potrebbero essere utilizzati per mettere fine alla questione del debito di alcuni paesi: maggiore solidarietà intraeuropea, creazione di eurobond, realizzazione di un sistema europeo di controllo e gestione dei conti,la creazione di un ministero europeo per l’armonizzazione dei conti degli Stati membri, e così via.

Tuttavia se per debito intendiamo l’eccesso di fiducia riposta in un popolo e la sua difficoltà a corrispondervi allora la questione è più complessa e si entra quasi in una sorta di eugenetica morale, fatta di superiorità dei popoli misurata in relazione al  rispetto di regole a volte difficili da valutare, basate su principi di correttezza e purezza della morale.

Nel ranking dei paesi affidabili ci sono la Germania e altri paesi del Nord. E non ci si rende conto di quante volte questi paesi hanno messo a rischio il bene comune della pace europea per perseguire i propri obbiettivi di purezza.

L’eugenetica morale è un problema soprattutto in un continente abitato da 250 milioni di persone circa parlanti più di una ventina di lingue diverse e a struttura etno-antropologica complessa e cangiante.

E allora cosa pesa di più sull’Unione Europea ?

Il debito amministrativo-finanziario dei paesi del Sud che comunque sarebbe risolvibile con strumenti di politica economica che abbiamo già citato oppure il debito dei tedeschi che si pone come momento metastorico di emancipazione di un popolo dalla dubbia storia ?

Il debito tedesco pesa sull’Europa assai più di quello dei paesi del sud.

Soprattutto perché il debito tedesco non è risolvibile con gli strumenti amministrativi.

domenica 24 agosto 2014

La partecipazione democratica tra politica e finanza

In un articolo pubblicato su “ il sole 24” intitolato “ Quando la corruzione diventa legalità” si fa riferimento alla  diffusa e crescente corruzione che riguarderebbe gli stati uniti in una sempre più presente commistione tra politica e finanza. L’editorialista scrive che: «La dimensione globalizzata del capitalismo finanziario ha fatto si che la corruzione della legalità dai paesi di maggiore influenza politica ed economica si espandesse velocemente agli altri». L’elemento che avrebbe fatto scaturire la  valutazione circa la centralità crescente della corruzione negli usa sarebbe da rinvenirsi nelle sentenze della corte suprema statunitense la Citizen United v FecC del gennaio 2010 e la recentissima McCutcheon v Fec del2 aprile 2014,  che avrebbero  «[…]definitivamente tolo ogni limite ai finanziamenti, diretti e indiretti, ai politici da parte delle grandi società in qualunque forma e attraverso qualsivoglia mezzo. » Secondo l’editorialista «Gli interessi della comunità finanziaria diventano così indissolubilmente legati alla politica […] ».  «[…] il governo degli Stati Uniti sta sempre più diventando “Government of Corporations” e non “Government of People” ». Con tali provvedimenti  « […]la corruzione si è inserita nella legalità» al punto tale che il finanziamento delle campagne elettorali sarebbe stato associato al fondamentale diritto di parola poiché «[…] secondo la decisione di McCutcheon […] “Corporations are people and Money is Speech” » 

Ora è necessario considerare che negli Stati Uniti il sistema di finanziamento della politica è sempre stato in chiaro come dimostrano molte istituzioni che tengono le fila dei finanziamenti ai politici e ai partiti. Nulla questio quindi se i gruppi finanziari del paese ritengono di finanziare le campagne elettorali dei soggetti politici in grado di difendere taluni particolari interessi e constituencies. L’elemento di democrazia consiste nella trasparenza. La trasparenza rende i cittadini responsabili delle scelte dei politici. I cittadini possono verificare se i politici hanno ottenuto dei finanziamenti. I cittadini possono valutare la capacità del politico di essere indipendente oppure di farsi “catturare” dal soggetto finanziatore e quindi decidere di rivotarlo o meno. L’esistenza di una legge, e di sentenze, chiarificatrici è da considerarsi un elemento di civilità. La proposizione “corporations are people”  ha un suo fondo di verità. In un sistema ad azionariato diffuso le grandi imprese sono in grado di rappresentare delle componenti fondamentali della popolazione. Popolazione che potrebbe anche non partecipare dell’attività  politica in modo diretto e che purtuttavia vi partecipa in un modo indiretto a mezzo di una sorta di “extra-delega” assegnata all’impresa nella quale lavora, o nella quale ha investito i risparmi. Inoltre è necessario considerare il ruolo che le grandi imprese statunitensi hanno anche per la costituzione di un senso di identità nazionale. Molta parte della grandezza del capitalismo americano è legata alla capacità di sviluppare quelle organizzazioni complesse e multi obbiettivo che sono le big corporations. La big corporation rappresentano anche i sogni, le speranze e il senso di comunità nazionale.
E’ chiaro che la commistione tra finanza e politica potrebbe mandare in corto circuito l’economia e la democrazia statunitense se non vi fossero passaggi elettorali in grado di coinvolgere i cittadini come singoli e come membri di gruppi associati. Poiché nella democrazia sono sempre le persone a detenere il “potere sovrano” di uno Stato, anche in presenza di imprese profittevoli. La commistione politica-finanza per poter essere efficiente deve innestarsi nel processo democratico che chiama in causa il popolo.
Incrementare il numero delle votazioni, degli enti per i quali si vota, delle consultazioni referendarie, e anche sui singoli temi,può sembrare un costo per la velocità decisionale. Tuttavia in alcune circostanze può essere fondamentale per fare in modo che la relazione tra politica e finanza sia inserita in un contesto democratico e diventi quindi una risorsa per la democrazia e la prosperità.

Reference

Guido Rossi, Quando la corruzione diventa «legalità», Il sole 24 ore, Domenica 24 agosto 2014, n. 231, pag. 1 e 12.